E se ti chiedessero: da dove vieni?
Riflessioni sulle proprie origini
C’è stato un tempo in cui, quando qualcuno mi chiedeva da dove venissi, rispondevo senza esitazioni: “San Francisco”. Non riuscivo proprio a capire perché mi chiedessero sognanti del sole, del mare e della California.
San Francisco è una colonia situata dentro la città di San Salvador dove io ho vissuto con la mia nonna prima di trasferirmi nell’orfanotrofio in cui sono rimasta fino alla mia adozione. Non tutte le persone conoscevano questi dettagli del mio percorso ed era davvero buffo perché poi di solito qualcuno interveniva e rispondeva alla domanda con frasi del tipo: “Nooo, viene da San Salvador, in El Salvador” e io ci rimanevo male per quel no deciso e per lo sguardo confuso che mi rivolgevano le persone.
Ma in fondo come potevano sapere loro da dove venissi io? Con il tempo ho scordato San Francisco ed ho imparato a rispondere semplicemente: “El Salvador, in Centro America”.
Ora sapete da dove vengo, o meglio: ora sapete dove sono nata. Perché “da dove vengo?” ha una risposta per me molto più complessa, e profondamente intrecciata con un’altra domanda, ancora più essenziale: “chi sono?”
Nel corso degli anni ho trovato diverse risposte, non tutte soddisfacenti: alcune cariche di sofferenza, altre più serene, a volte nostalgiche, certe persino divertenti. Ci sono stati momenti in cui queste domande mi hanno importato poco perché concentrata sul presente e sulla quotidianità; altri momenti in cui, soprattutto in adolescenza, tenace, mi sono intestardita nel volere avere una risposta assoluta, riempire qualche vuoto, alleviare un minimo quell’angoscia sulle mie origini.
Qualche settimana fa sono tornata a riflettere ancora su questo, quando ho deciso di partecipare ad una ricerca rivolta ad adulti adottati dal titolo: “chi sono? da dove vengo?” Domande che tutti, prima o poi, si pongono nella vita, qualcuno di più, qualcuno di meno. Io certamente sono tra i primi sia per deformazione professionale che per la mia storia.
Così solleticata della ricerca ho ripercorso le risposte che mi sono data negli anni e ho ripensato con tenerezza a quella bambina confusa e a quella adolescente bramosa di certezze. Mi sono sentita diversa ed al contempo così tanto io. Diversa anche da quella psicologa tirocinante che in un Consultorio raccontava di sé a genitori in attesa di un bambino adottivo o che li supportava nei primi mesi dopo l’arrivo dei figli. Confrontarmi con questi genitori, con altre persone adottate o più in generale con persone che hanno abitato terre diverse o che hanno vissuto in tanti luoghi, hanno arricchito il modo in cui mi definisco, definisco chi sono e da dove vengo.
Nel mio pensare mi sono resa conto di come siamo così abituati a cercare risposte chiare, precise e decise che spesso dimentichiamo come diventare chi siamo, trasferirci da un luogo ad un altro, sentirci parte di qualcosa, e tutti gli altri processi, sono in continuo cambiamento, come un fiume con tanti affluenti, fluidi e variegati.
Quando si pensa alle origini di una persona adottata l’attenzione di focalizza sul viaggio di ritorno: “ci sei più tornato? vorresti tornarci? ci tornerai?” Un viaggio che può essere sia reale che immaginario, nel mio caso lo è stato entrambi, e che può coinvolgere diversi livelli, ognuno sceglie il suo: dalla ricerca dei propri familiari al contatto con la propria terra. Il viaggio di ritorno non è un viaggio unico: è un continuo andare e tornare, un muoversi tra là e qua, un viaggio dove ad una certo punto andata e ritorno si confondono, un viaggio che fai tutta la vita indipendentemente dal fatto che compri o meno un biglietto aereo con destinazione la terra che hai lasciato. In questo andare e tornare ci si può anche perdere e il contesto in cui si vive fa la differenza. Avere intorno a sè persone che ci supportano, cercano di comprendere quel miscuglio che siamo e ci lasciano liberi di andare e tornare restando un porto sicuro ci aiuta a trovare la nostra dimensione.
Un altro valido aiuto è avere a disposizione un linguaggio il più possibile ricco, vivace e creativo per poter trovare le parole più adatte a definirci. Per esempio, per quanto apprezzi la poesia inclusa nei due termini “mamma di pancia” e “mamma di cuore”, non sono una fan di queste due espressioni che spesso vengono usate per distinguere la mamma biologica da quella adottiva. Perché questa spartizione di organi? perché devo vedere il cuore solo nella mamma che mi ha adottato? se penso a quanto volte si sarà così preoccupata per me da farsi venire il mal di pancia! E perché devo vedere la pancia solo nella mamma che mi ha tenuto dentro di sé? anche lei avrà avuto un cuore. Anche in questo il contesto fa la differenza.
Chi si occupa o si è interessato di adozione, sa che in merito alla propria storia occorre dare senso, significato, anche se nel nostro “puzzle” mancano alcuni pezzi così da poter integrare in un tutt’uno le diverse parti di sé, è un processo sempre in atto, in continuo divenire. Questo è quel processo fluido e variegato di cui parlavo.
All’immagine del puzzle, io preferisco quella della pupusa per dirlo con un piatto tipico del mio paese di origine. Immagino la mia adozione come una spessa tortilla molto farcita, ricca di vari ingredienti, diversi tra loro, più o meno numerosi a seconda del momento. Una pietanza che quando la si addenta, i gusti si confondono ed è difficile riuscire ad isolarli e separarli, avrebbe poco senso farlo perché separati non sarebbero più pupusa. Delle volte ho la sensazione che mi sia rimasta sullo stomaco ma questo non mi impedisce di assaporarla ancora, poiché in fondo mi alimenta, è saporita, è familiare, è me.
Per tutto questo sono convinta che si possa abitare più terre o eleggerne una per una parte della propria vita per poi cambiarla di nuovo, se lo si desidera. Sono convinta che si possono chiamare mamma, papà, sorella, fratello nonna, nonno… più persone, anche se non c’è un legame di sangue. Sono convinta che si possono provare una miriade di emozioni e sensazioni, anche contrastanti tra di loro, in merito alla propria storia, a chi si è ed anche in relazione ai luoghi che si abitano.
E tutto ciò non vale solo per le persone che sono state adottate: in fondo le persone che si rivolgono a me, che vengono nella stanza di terapia, si pongono spesso le domande “chi sono e da dove vengo?” e ancor più spesso ne aggiungono altre due: “dove vado? perché a me?” Spesso la sofferenza che li spinge a chiedere aiuto li può far sentire come quella bambina confusa o quella adolescente dubbiosa che sono stata io. Ed in terapia avviene un po’ questo, si cercano delle risposte a queste domande, non certezze assolute ma altre domande e tante risposte che ci aiutino a dare un senso a chi siamo, alla strada percorsa, ai luoghi visitati ed a quelli che vorremmo visitare. Non sempre è facile fermarsi ed interrogarsi su questi quesiti perché spesso sono connessi ad alcune nostre ferite, parti di noi ancora doloranti o mancanti.
“Chi sono, da dove vengo e dove vado? perché io?” Scegliere di intraprendere un percorso di sostegno psicologico o psicoterapia vuol dire interrogarsi su queste domande, per alleviare un dolore, digerire un piatto un po’ indigesto, scoprire nuove o antiche cose di sé o semplicemente approfondire con altre domande alcuni aspetti sconosciuti di noi.
Prima di concludere, rivolgo un invito a chi è stato adottato e vuole contribuire alla ricerca. Ricordo loro di non temere di raccontarsi perché non esiste un modo unico e corretto di sperimentare la propria adozione e la ricerca in questione è una possibilità di far conoscere il proprio punto di vista. La psicologia è anche ricerca, un aspetto spesso poco conosciuto di questa professione. Per maggiori informazioni: https://www.facebook.com/328127287776736/photos/a.350134488909349/793794667876660/